da “In 50 anni hanno chiuso cento fabbriche” (il giorno):
SONO 10.500, secondo una stima della Cgil, i posti di lavoro persi nel comparto chimico-tessile-energetico (oggi racchiuso nella sigla Filctem-Cgil) dal 1960 a oggi. E di 107 fabbriche attive all’epoca ne sono rimaste in vita 4, tutte in crisi. L’Avagolf (circa da 350 agli odierni 50 addetti) di San Colombano e Felisi (da 200 a 20) di Codogno (entrambe nel tessile), Lever Gibbs (da 1360 a 310 posti) di Casale (detergenza) e la Soc. Elettrochimica Solfuri (da 350 a 40 addetti) di Tavazzano (chimica).
Certo, non è tutto ciò che rimane nel territorio: oggi chimica (da sola conta oltre 3mila addetti), energia e tessile (entrambe con circa 500 addetti) impegnano ancora oltre 4mila lavoratori in 66 stabilimenti. Ma, quello che insieme alla meccanica è stato uno dei settori trainanti del territorio, ne esce molto ridimensionato.
SE NELL’AGRICOLTURA sono state le macchine a soppiantare i braccianti, un processo diverso ha interessato chimica-tessile-energia: «Con la globalizzazione il mondo del lavoro è passato in mano alla finanza — spiega Francesco Cisarri, segretario della Filctem-Cgil, a margine del convegno “C’era una volta” che ha preso vita ieri pomeriggio nella sede di Via Lodivecchio e che proseguirà, con altri interventi, stamattina —. Basta una lieve flessione nel puro guadagno e si chiude, gli operai che hanno prodotto quel reddito non contano. La Schering è un caso emblematico: non c’è crisi, l’impresa produce utili ma a livello mondiale si decide, sulla carta, di chiudere. In questo caso a intervenire deve essere la politica: l’84% del fatturato della Schering è pagato, con l’acquisto di farmaci, dal Servizio sanitario nazionale. Il Governo dovrebbe imporre che si produca qui, e non altrove, ciò che si acquista. Sul piano prettamente sindacale è invece fondamentale che si guardi con attenzione ai bisogni dei lavoratori di oggi, che sono gli stessi di quelli emersi nel Dopoguerra: dalle tutele essenziali sul lavoro all’urgenza di avere una casa. Bisogni che oggi toccano soprattutto gli extracomunitari come, nel Dopoguerra, riguardarono gli immigrati del sud. Il problema è che il grido d’allarme, sul piano politico come sindacale, non è mai all’unisono. Per questo serve un confronto».
La politica deve ragionare e agire soprattutto nel momento in cui ci sono dei soldi pubblici investiti per l’occupazione in aziende che poi a tendere chiuderanno per spostare la produzione in aree dove i costi sono inferiori.
Non in coercizione sulle aziende, ma nell’ottica della salvaguardia dei soldi investiti, in un arco temporale minimo.