Tutti noi abbiamo una storia da raccontare, o almeno, da ascoltare.
È la peculiarità che ci distingue dagli altri animali, al di là della biologia o della capacità di fare cose e migliorare la tecnica.
La religione è una collezione più o meno strutturata di storie, che risponde agli interrogativi umani sulla nascita, sulla morte e sulla sofferenza, in pratica il mistero della vita stessa, con l’aggiunta di qualche regola pratica utile alla sopravvivenza (evitare poco igienici alcool e carne di maiale in climi caldi, evitare la poligamia e accoppiamento tra parenti che impoveriscono il patrimonio genetico).
Inside Out e Soul (appena visto) le considero, oltre che un po’ troppo tristi, come delle metastorie, in quanto vogliono raccontare la storia della vita stessa e delle emozioni, dall’interno.
Insomma abbiamo bisogno di storie, è nella nostra natura.
Davanti a un focolare, seduti a tavola o in spiaggia o in un bosco, la narrazione – come dicono quelli che si atteggiano – di ciò che succede o di ciò immaginiamo, è la componente che dà maggior senso alle nostre domande, al di là della gestione della quotidianità e dei bisogni primari, di quel malsano meccanismo del “lavoro” che ormai va oltre la sua funzione di scambio di saperi e mestieri diventando moderna accettata schiavitù.
Il senso di questa non storia è che quando mi fermo a pensare al senso di vivere, avere una famiglia, degli amici, un lavoro, è che poi tutto diventa una storia. Altrimenti per una mera esistenza ad eseguire dei task bastano animali e robot.